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Pensieri di un papà

Due chiacchiere con Yussuf, il migrante avventuriero

Questo è uno di quei post lunghi e incasinati. Ma è una cosa vera che mi è successa. Ve la dico così come è andata.

Poi fate voi…

Bandiera somala
Bandiera somala

Quando sono da solo a Milano, in agosto, mentre gnappi e Anna sono dai nonni, ho più tempo per cazzeggiare in giro, perché non devo per forza tornare a casa il prima possibile per stare un po’ coi due balossi prima di cena. Così mi capita di restare al lavoro di più e fare le cose con più calma.

Siccome poi la mia voglia di cucinare quando sono da solo è pari a zero, tornando a casa a volte mi infilo da McDonald, dove con tre euro riesco a cenare al volo senza troppe paranoie.

Tipo l’altra sera, nel Mac dove passo di solito allungando un po’ la solita strada, ma restando comunque nei paraggi. Un hamburger, un Mc Chicken e un milkshake al cioccolato e passa la paura. Altrove, intanto, un nutrizionista si fa il segno della croce, perché teme di fare la fine delle fatine quando un bambino dice: “Io non credo nelle fate”. Ma vabé.

Mentre ero assorto nei miei pensieri, seduto a un tavolo fuori, provando con una mano ad vedere le news di Repubblica sullo smartphone e con l’altra a scartare il mio Mc Chicken, vedo a cinque centimetri dalla mia faccia con la coda dell’occhio un’ombra che mi parla a bassa voce.

L’amigdala, l’interruttore della mia paura, fa il suo mestiere e, prima ancora di realizzare che cosa stesse succedendo, mi fa fare un salto di mezzo metro sulla panca. Anche perché ero proprio sovrapensiero e non mi ero accorto che qualcuno si stesse avvicinando.

Quando realizzo, dopo il mezzo infarto, vedo uno spilungone alto e dall’aria smarrita che vuole qualcosa da me. Ho subito pensato a un profugo, visto che voleva chiedermi qualcosa e immaginavo fossero soldi. Ero ancora talmente scosso dallo spavento per essermelo trovato così vicino all’improvviso che ho reagito abbastanza in malo modo.

Prima gli ho detto subito di no, a prescindere, qualunque cosa volesse. Poi, visto che insisteva e mi ha chiesto se parlavo in inglese, me ne sono uscito con uno scocciato.

What do you want?

Dato che la sua reazione era abbastanza lenta e me lo volevo levare di torno in fretta ho aggiunto.

“You want food?”

Così alla sua risposta affermativa gli ho schiaffato in mano il mio hamburger ancora incartato e gli ho detto per chiudere: “Here you are. Ciao“.

Tendo a non dare soldi alla gente che me li chiede per strada, ma un panino da un euro per levarsi un seccatore di torno ci poteva anche stare. Poi magari aveva fame davvero e condividere il cibo comunque è una cosa bella, anche se cinicamente speri che lui non si metta a mangiarlo lì con te, cosa che infatti non è successa.

Mentre se ne va via, provo a realizzare quello che è avvenuto nel giro di 20 secondi e mi girano un po’ i maroni. Cioè, io sono qua a mangiare la mia cena da single dal Mac e tu mi freghi un panino da sotto il naso. Vabé.

Così, sempre perché non avevo niente da fare e non dovevo tornare a casa, lo seguo con lo sguardo. Vedo che attraversa la strada, si mangia il panino e poi scompare in un viale. Io con calma finisco la mia cena da 2 euro (Mc Chicken e milkshake, senza l’hamburger che si è mangiato lui) e decido di girare l’isolato in scooter e pedinarlo. Giusto per capire chi fosse, dove andasse. Pura curiosità e anche voglia di capire chi cacchio sono questi di cui parlano tutti i giornali, politici & co.

Quelli contro cui gridano sempre i cittadini delle piazze di “Dalla vostra parte“, nel preserata su Retequattro aizzati dal conduttore e che Gianfranco Librandi fa sempre incazzare a morte urlando: “Gli italiani non si devono lamentare! Voi non vi dovete lamentare!”. E questi che urlano ancora di più. Spettacolo penosissimo, da evitare. Meglio guardare le previsioni del tempo.

Sinceramente volevo capire chi fosse. Magari se fossi stato meno spaventato e sempre per il fatto che non avevo granché da fare nella mia serata da single ti invitavo pure a mangiare con me a fare due chiacchiere… Ma non per fare il progressista di stacippa o fare la buona azione. Solo per capire.

Così, dopo un paio di vie, lo becco e mi metto a pedinarlo fino a un parchetto dove lui trova dei suoi amici. Deduco tutti africani.

Mi posiziono dall’altra parte della strada e li vedo che chiacchierano su un muretto, mentre un altro gruppo di giovani gioca a cricket (che non è proprio il nostro sport nazionale, quindi deduco pure loro stranieri).

Guardo da lontano. Uno gli offre una sigaretta. Parlano. Scherzano. Ovviamente lo sguardo da cane bastonato che aveva fatto davanti a me è svanito in un secondo. Non dubitavo. Cojone io che ci casco sempre tutte le volte davanti a chi mi tende la mano per strada.

Poi, a un certo punto, vedo delle birre in bottiglia che si mette a bere. Perché la birra, dopo l’hamburger del Mac, è la morte sua, si sa. E i coglioni mi girano ancora di più perché non solo mangi a scrocco, ma ti bevi pure la birra. Eccheccazzo.

Visto che la curiosità era troppa vado da loro. Improvviserò qualcosa. Vediamo che succede.

Loro sono sei e io uno solo. Nel parco sono quasi tutti stranieri.

Mi avvicino al gruppo seduto sul muretto e gli chiedo una birra, come se fosse la cosa più normale del mondo.

Lui, quello che mi aveva chiesto da mangiare, alza la voce e mi dice di no.

Cioè, hai anche il coraggio di incazzarti? Mi scrocchi un panino e non mi dai una birra? Tu mi chiedi da mangiare e io te lo do. Io ti chiedo da bere e tu non me lo dai?

Mi scatta quindi la paternale one to one, con gli altri amici suoi che guardavano sbigottiti.

Farfugliando entrambi qualcosa in inglese, riusciamo a capirci in un dialogo surreale del tipo:

“Ah, il panino me lo scrocchi, ma la birra non me la dai eh, limortaccitua” (limortaccitua non gliel’ho detto, ma il tono era quello…).

“No, non mi hai dato nessun panino!”.

“Malimortaccitua (x2) sei proprio un’infame, cioè mangipane a tradimento e neghi pure?! Diglielo ai tuoi amici che mi hai chiesto un panino, che ti vergogni? Eri tu, dieci minuti fa, eravamo al Mc Donald all’angolo”.

“Ah sì, è vero”.

“Eh, allora dammi una birra per favore visto che io ti ho offerto il panino”.

“Non è mia, me l’hanno lasciata, ho solo queste due”, mi dice, mostrandomi una Heineken da 66 e una Becks già aperte e a metà.

E vabbé, le smezziamo, chessarammai. Posso bertene un goccio?“.

Vuoi berne un po’ da queste?“, chiede lui ancora più stupito. “Va bene, tieni”.

(Ora, il dialogo non è andato proprio così. Ma il senso era assolutamente quello. Solo che era in un inglese improbabile, il mio, e uno altrettanto improbabile, il suo).

Posso sedermi?“, gli chiedo indicando il muretto.

Il gruppo che ancora non ci poteva credere e guarda divertito, capendo che non avevo cattive intenzioni, acconsente.

Così ci mettiamo a parlare. Ci presentiamo.

Giuseppe“, mi dice indicando se stesso.

See, vabbé, nella lingua tua, come ti chiami?“, gli rispondo io con l’aria di uno che non va più preso per il culo.

Youssuf“.

Così mi metto a parlare con Youssuf, a fargli il terzo grado. A lui e ai suoi amici che nel frattempo si sono alzati e sono venuti davanti a noi a godersi lo spettacolo.

Nel giro di un quarto d’ora capisco che:

  1. sono tutti della Somalia
  2. sono in Italia da diverso tempo, Youssuf almeno da un paio d’anni
  3. sono tutti musulmani
  4. Youssuf è ubriaco perso (e prima da Mc Donald’s non me n’ero manco accorto)
  5. gli altri suoi amici sono sobri e sono brave persone (me ne accorgo dagli occhi che hanno)

Così, visto che ormai sono in confidenza, gliela meno pure (paternale due) che gli amici sono bravi musulmani mentre lui è pure un cojone che si ubriaca e andrà all’inferno (che poi non so se i musulmani hanno l’inferno, ma un crossover di religioni alle 8 di sera nella Milano d’agosto ci sta pure).

Lui me la rimena dicendo che fa come i cristiani che possono bere e io ribatto che anche se i cristiani possono bere mica se devono imbriacà. Lo dice pure San Paolo (Lettera ai Galati 5, 19-21, et alia). I suoi amici musulmani annuiscono. W l’ecumenismo.

Dopo un po’ gli amici somali se ne vanno e io resto con Youssuf che, evidentemente, non ha una cippa da fare come me.

Il mio obiettivo era finalmente parlare vis à vis con una di quelle persone di cui parlano tutti, nel bene o nel male. Da Salvini a Papa Francesco, fino agli scannatoi da quattro soldi in tv. Quel fenomeno chiamato “migrazione di massa” con cui probabilmente dovremo fare i conti (e saranno sempre più cazzi, io ve lo dico e lo pre-dico) almeno per i prossimi 50 anni o forse anche di più.

Finalmente posso andare alla fonte. Senza mediazioni ignoranti della tv. Posso farmi l’idea mia. Senza andare in Somalia. Comodamente da un parchetto di Milano. Ho pure risparmiato i soldi del viaggio.

Comunque, i tratti salienti del racconto di Youssuf, al netto delle minchiate che mi avrà raccontato sicuramente, ma si dice che in vino (anzi, nel suo caso in birra, veritas) sono questi.

Li do per buoni, considerando che comunque non mi ha chiesto soldi né altro, ci siamo finiti le birre (io prego i miei anticorpi che funzionino perché non so in quelle bottiglie chi cacchio ci abbia bevuto, visto che a lui le avevano lasciate degli altri amici…) e l’ho fatto un po’ parlare sempre con un po’ di fatica per l’inglese (per una volta mi sono sentito figo, padroneggiando la lingua meglio del mio interlocutore, incredibile!).

Dunque, ricapitolando:

  • L’amico Yussuf è del 1993, nato il primo gennaio (ma chissà se è vero, secondo me il tempo in Africa lo segnano un po’ accazzo). Quindi ha 23 anni. Prima cazzata smentita dal documento che gli ho chiesto di farmi vedere visto che prima mi aveva detto che ne aveva 31. Vabbé.
  • E’ in Italia da due anni, arrivato a Lampedusa e poi trasferito ad Agrigento e poi al CPT di Trapani (sempre provato dal suo preziosissimo documento verde che aveva nascosto in una tasca interna tra i pantaloni e le mutande).
  • Ha un documento valido che gli permette pure di espatriare in tutti i Paesi in cui il governo somalo è riconosciuto, ad eccezione della Somalia stessa. Così c’era scritto, non chiedetemi perché. Il documento scadeva nel 2019 quindi credo che sia abbastanza in regola.
  • Lui e gli amici hanno provato ad andare in Germania, ma sono stati tutti riportati indietro. (Oh, a me sta cosa che ci ributtano indietro i migranti da Francia. Svizzera e Germania fa girare i maroni all’ennesima potenza. Ci trattano sempre come i più coglioni dell’Europa e noi non facciamo mancare occasione per non smentirli, mortacciloro).
  • In Somalia ha quattro fratelli, il papà e la mamma. Dice che la sua famiglia gli manca, ma non ha i soldi per tornare indietro.
  • La Somalia è divisa in due. A Mogadiscio c’è un casino che la metà basta, dove ammazzano i bambini per strada. Le nord invece c’è il Somaliland, da dove viene lui. Che è uno Stato non riconosciuto da nessuno, ma dove, dice, rispetto alla Somalia di Mogadiscio si sta bene. Anzi, pure da loro arrivano i profughi. Come dire che tutto il mondo è paese (quasi).
  • Lui ad Hargheisa, non capitale del non stato del Somaliland, aveva un lavoro. Insegnava matematica a due classi di bambini di 8 anni.
  • In Somaliland “si sta benissimo”. Da quanto ho intuito, “sono poveri, ma non gli manca nulla”, parafrasando una storica risposta di Luciano Gaucci da Santo Domingo a Enrico Lucci delle Iene.
  • I suoi amici invece sono nella Somalia più “problematica”, diciamo così.
  • Per farsi il viaggio da casa sua in Italia ha pagato 800 euro e se n’era portati dietro duemila che gli avevano dato i suoi. E’ passato per il Sudan e per la Libia.
  • Si è messo su un barcone, nel dicembre di due anni fa. Durante la traversata sono morti diverse persone che erano con lui annegate in mare mentre lui è riuscito a salvarsi. (Anche qua, vai a sapere se un ubriaco somalo di 23 anni ti sta dicendo la verità, però non avevo fonte più attendibile sottomano purtroppo. La do per buona, vedendo come ricordare gli facesse male, ma non ci metto la mano sul fuoco perché bisognerebbe verificare se in quel mese e in quell’anno ci sono stati dei naufragi).
  • E’ stato per un bel po’ in Sicilia, dove ha anche lavorato. Anche qui, dice, che ogni tanto lavora. Come raccoglitore di frutta o verdura dice, però non lavora sempre. Solo un paio di giorni e mica sempre.
  • Vuole lavorare. Ma da quanto ho capito non si ammazza per cercarsi un lavoro, anche se ha i documenti in regola. Lavora un po’ a cazzo ho intuito. Vorrebbe pure fare il calciatore o giocare a basket (see, vabbé Giuseppe, basta birra va…).
  • Ha studiato italiano per poco tempo (e si sente, visto che forse gli viene quasi meglio l’inglese, per dire).
  • Una casa ce l’ha e paga 250 euro al mese per l’affitto. Una stanza in condivisione? Boh, dubito Air B&B comunque.
  • Non sa cosa farà nei prossimi mesi, anni.
  • Vuole lavorare, ma senza fretta. Ogni tanto lo fa, così la sua coscienza evidentemente è a posto. (E qui scatta la terza paternale, per la serie: “Ma che cazzo dici? Mica puoi fare il vagabondo ubriaco come oggi! Ti devi trovare un lavoro, ma subito, oggi, minkia oh! Oggi invece che ubriacarti non potevi cercare lavoro? Come cerchi lavoro? Oh, c’hai 23 anni, mica vorrai campare con le tasse mie eh?!!). Ecco quella delle tasse non l’ho detta, ma l’ho pensata però.
  • Ah, che in Somaliland si sta bene ve l’ho già detto?
Bandiera del Somaliland
Bandiera del Somaliland

Perché a questo punto, la domanda sorge spontanea.

Che cazzo ci sei venuto a fare qua in Italia rischiando la vita se stavi così tanto bene a casa tua che è pure meta dei vostri profughi locali, mentre ora ti ritrovi qui a bighellonare per strada?

Risposta: “Volevo il passaporto italiano, per andare e venire quando voglio. A casa stavo bene, ma non avevamo tanti soldi. Adesso sto bene, sono felice ogni secondo. Ogni tanto lavoro, questi vestiti me li sono comprati. Adesso sto qua, poi non so. Magari quando ho i soldi torno in Somaliland, oppure vado da un’altra parte in Europa”.

Cioè, fammi capire. Sei, in anno sabbatico? Sei un Goethe africano da Grand Tour dell’800, aggiornato ai giorni nostri, con tutto il casino che c’è in Italia?!

Davanti alle mie perplessità, non esternate proprio così, ma con un po’ più di ritegno, non ha fatto una piega. Sinceramente mi ha detto che non sa neanche perché è venuto in Italia. Perché si è messo in viaggio. Ha fatto un viaggio della speranza a caro prezzo senza neanche sapere il perché.

Annamo bbene. Proprio bbene, direbbe sora Lella, ragazzo mio.

Domanda di riserva: “Ma allora, se stai così bene, perché sei venuto a chiedermi il panino?”

“Perché oggi non ho soldi e così ti ho chiesto da mangiare. Quando non ho soldi faccio così. Poi quando ho i soldi sono io che compro la roba e la do agli altri. Ci aiutiamo come possiamo”.

***

E così mi taccio. Sospendendo ogni giudizio: afasia e atarassia epicurea. Ognuno faccia le sue riflessioni.

Al netto delle cavolate che mi avrà magari anche raccontato, ma visto che siamo stati a parlare per più di un’ora, finché non si è fatto buio su quel muretto e il parchetto non si è svuotato, do per buone tantissime delle cose che mi ha detto. Soprattutto sul perché è venuto in Italia. Secondo me davvero non lo sapeva.

Mi ha ringraziato e fatto i complimenti per il mio inglese. Poi mi ha dato il suo numero di telefono e scritto il suo nome completo. Era sempre abbastanza ubriaco, ma in un’ora un po’ gli è passata e qualche ragionamento comunque siamo riusciti a farlo. Alla fine, in vino veritas. Oppure no, chissà.

Io l’ho guardato negli occhi. Ed erano occhi ubriachi. Ma ho guardato quelli dei suoi amici. Ed erano occhi di bravi ragazzi, che spero che a differenza di Youssuf si sbattano un po’ di più di lui per fare qualcosa di utile alla società e una città che li ha in qualche modo accolti. Senza paternalismi, ma per senso di giustizia. Loro non toccano alcol e sono sorridenti. Il che è già un ottimo inizio.

Io penso che quell’euro dell’hamburger donato sia stato un investimento con un buon ritorno. E’ stato come comprare un giornale senza le solite polemiche inutili. Sono fortunato perché, da uomo, posso fare certe cose che una donna sicuramente farebbe più fatica a fare, rischiando più di quanto abbia rischiato io.

Credo che prima di giudicare bisognerebbe parlare con le persone. Guardarle negli occhi. Senza buonismi inutili o timidezze relazionali. Io la mia idea ce l’ho. Ma è un’idea molto confusa. Il problema è quando le idee confuse ce le ha anche chi ci governa: dall’Europa al Parlamento, dal governo alla giunta comunale. Sono problemi difficili, forse impossibili da risolvere.

Chiudersi nel proprio guscio però non credo serva a nulla. Bisogna incontrarsi, parlare. Vedere, valutare e poi agire. Solo che spesso non c’è il tempo. Se non fosse stato agosto, io non mi sarei mai fermato a parlare con Youssuf. Manca il tempo e manca la voglia. Di capire. Anche se, dopo aver parlato con un somalo ubriaco che mi ha chiesto un panino, io ancora non ho capito bene.

Se non che ci sono uomini e donne che hanno un nome, un volto, una storia e una cultura. Uomini e donne che hanno una fede. Credo che non avere fede né cultura sia un problema più che un vantaggio. Perché se io non ho queste due cose, difficilmente potrò confrontarmi con chi ne ha una diversa. Rischio di soccombere e di fare una pessima figura davanti a chi una cultura e una fede ce l’ha. Rischio di farmi sottomettere.

C’è Youssuf e i suoi amici somali di cui ho dimenticato il nome, ma di cui non dimenticherò lo sguardo. Come non dimentico lo sguardo di Mauro, che ho incontrato ad agosto un paio di anni fa e di cui non ho più saputo nulla, ma spero stia bene. Anche per lui la vita è difficile.

Milano è bella anche ad agosto. Quando la vita scorre più piano. E non hai quella benedetta fretta di tornare a casa.

Di Fede

Blog di un papà imperfetto